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Global Sumud Flotilla, giorno 14. L’ex capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi ha ammesso che oltre il 10% della popolazione è stata uccisa o ferita: più di 200.000 persone, un numero che coincide con le stime del ministero della Sanità di Gaza, sempre liquidate da Israele come “propaganda di Hamas”. Oggi la conta ufficiale parla di 64.871 morti e 164.610 feriti dall’inizio della guerra, con migliaia di corpi ancora sotto le macerie.
Le cronache registrano almeno 68 nuove vittime in un solo giorno, colpite a Gaza City, Rafah e Jabalia. Dall’alba i raid hanno distrutto più torri multipiano, inclusi edifici residenziali e l’università islamica della città. L’Unrwa avverte che «nessun luogo è sicuro». Trecentomila persone hanno abbandonato Gaza City nelle ultime ore, secondo le stime dell’Idf.
Eppure i numeri non riescono a restituire la devastazione di interi quartieri cancellati, dei bambini uccisi negli ospedali, delle famiglie sepolte nei rifugi. Halevi ha detto senza esitazioni che «abbiamo tolto i guanti dal primo minuto». È il linguaggio di una guerra che non distingue, che cancella il confine tra civili e combattenti, come dimostrano le stesse analisi interne israeliane che stimano l’80% delle vittime tra i civili.
In questo scenario si capisce perché in tanti, da decine di Paesi, hanno scelto di salpare verso Gaza. Non c’è eroismo retorico, ma la semplice ostinazione di chi rifiuta il silenzio. È così difficile capire perché dei cittadini non violenti di tutto il mondo hanno deciso di imbarcarsi con viveri e medicinali per aprire un canale umanitario e accendere i riflettori su Gaza?
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In questo scenario si capisce perché in tanti, da decine di Paesi, hanno scelto di salpare verso Gaza. Non c’è eroismo retorico, ma la semplice ostinazione di chi rifiuta il silenzio. È così difficile capire perché dei cittadini non violenti di tutto il mondo hanno deciso di imbarcarsi con viveri e medicinali per aprire un canale umanitario e accendere i riflettori su Gaza?
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