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La tregua entra nella sua zona più fragile. Benjamin Netanyahu annuncia che la fine della “prima fase” è vicina e ribadisce che sarà Israele a decidere tempi e modalità delle mosse successive. È un messaggio politico prima che militare: l’accordo regge, il controllo resta unilaterale.
Sul terreno, la tregua vive delle sue eccezioni. L’esercito israeliano uccide un miliziano nel nord della Striscia dopo il superamento della “linea gialla”, parlando di minaccia immediata. Un confine operativo che continua a produrre morti mentre il cessate il fuoco resta formalmente in piedi.
Hamas conferma l’uccisione di Raed Saad, indicato da Israele come figura centrale nella produzione di armi e nella pianificazione del 7 ottobre. L’attacco, lungo la strada costiera Rashid, viene raccontato come mirato; i media palestinesi parlano di altre vittime. La leadership militare viene colpita mentre si discute il passaggio alla fase due.
Fuori da Gaza, uno stanco Abu Mazen prova a rimettere paletti sempre più deboli: no alla divisione della Striscia, no a nuovi confini interni, ricostruzione sotto sovranità palestinese. È la partita che si apre dietro la tregua, ma senza forza politica reale.
In Cisgiordania la pressione resta costante: incursioni e arresti, anche a Hebron, ricordano che la tregua è geografica solo sulla carta.
Poi c’è Sydney. L’attentato è antisemitismo. Persone colpite per ciò che sono, durante una celebrazione religiosa. Su questo non esistono ambiguità. Ma subito dopo Netanyahu accusa il governo australiano di aver “incoraggiato” l’antisemitismo, attribuendo una responsabilità politica diretta all’esecutivo. Trasformare un crimine d’odio in un’arma narrativa è una scelta.
La stessa operazione si ripete anche in Italia, dove c’è chi mescola chi chiede giustizia per Gaza con i terroristi di Sydney. Una confusione deliberata, utile a delegittimare le piazze.
Resta un fatto che disturba la propaganda: l’uomo che ha disarmato il terrorista a Sydney è un immigrato musulmano. I fatti, messi in fila, continuano a smentire lo scontro di identità.
#LaSveglia per La Notizia
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Sul terreno, la tregua vive delle sue eccezioni. L’esercito israeliano uccide un miliziano nel nord della Striscia dopo il superamento della “linea gialla”, parlando di minaccia immediata. Un confine operativo che continua a produrre morti mentre il cessate il fuoco resta formalmente in piedi.
Hamas conferma l’uccisione di Raed Saad, indicato da Israele come figura centrale nella produzione di armi e nella pianificazione del 7 ottobre. L’attacco, lungo la strada costiera Rashid, viene raccontato come mirato; i media palestinesi parlano di altre vittime. La leadership militare viene colpita mentre si discute il passaggio alla fase due.
Fuori da Gaza, uno stanco Abu Mazen prova a rimettere paletti sempre più deboli: no alla divisione della Striscia, no a nuovi confini interni, ricostruzione sotto sovranità palestinese. È la partita che si apre dietro la tregua, ma senza forza politica reale.
In Cisgiordania la pressione resta costante: incursioni e arresti, anche a Hebron, ricordano che la tregua è geografica solo sulla carta.
Poi c’è Sydney. L’attentato è antisemitismo. Persone colpite per ciò che sono, durante una celebrazione religiosa. Su questo non esistono ambiguità. Ma subito dopo Netanyahu accusa il governo australiano di aver “incoraggiato” l’antisemitismo, attribuendo una responsabilità politica diretta all’esecutivo. Trasformare un crimine d’odio in un’arma narrativa è una scelta.
La stessa operazione si ripete anche in Italia, dove c’è chi mescola chi chiede giustizia per Gaza con i terroristi di Sydney. Una confusione deliberata, utile a delegittimare le piazze.
Resta un fatto che disturba la propaganda: l’uomo che ha disarmato il terrorista a Sydney è un immigrato musulmano. I fatti, messi in fila, continuano a smentire lo scontro di identità.
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